Il governo di Boris Johnson affronta il tema delicato della libertà di parola nelle università inglesi, per evitare che anche il Regno Unito incorra in quella che ad alcuni osservatori pare una vera e propria deriva in atto nei campus americani. L’iniziativa annunciata da Johnson è infatti orientata a contrastare la censura, da parte dell’accademia, del pensiero non per forza di cose allineato ai principi – nominalmente inclusivi e tolleranti – della cosiddetta sinistra liberal. In Italia, su di un piano in apparenza diverso e sul versante filoeuropeo, Mario Draghi chiama Paola Ansuini alla direzione della comunicazione di Palazzo Chigi, promettendo di dare un taglio all’uso smodato di annunci via Twitter e Facebook a cui ci avevano abituato, tra gli altri, sia Rocco Casalino sia Matteo Renzi. La linea per Draghi sembra ora essere quella del comunichiamo qualcosa se c’è qualcosa da dire.
Si tratta di due propositi provenienti da due versanti politici opposti rispetto alla questione dell’Europa, ma entrambi sembrano presagire una svolta culturale nell’accidentato rapporto che il linguaggio intrattiene con la politica, perlomeno in anni in cui i social media e la comunicazione che essi facilitano, sembrano aver perso qualunque salutare attrito con la realtà. Di tale possibile svolta bisogna cogliere a fondo l’inedita opportunità, ben al di là – sia chiaro – di quel che Johnson e Draghi rappresentano come personalità politiche. Fake news e ansia da connessione sono infatti qualcosa che ciascuno di noi vive sulla propria pelle, anche senza che l’interessante docufilm in onda su Netflix, dal titolo The Social Dilemma, ce lo ricordi con le parole preoccupate dei manager e degli analisti che proprio per i social network hanno lavorato negli ultimi dieci e passa anni.
Quanto ai campus americani, oltreoceano si parla spesso del trattamento riservato al popolare psicologo canadese Jordan Peterson, che nei suoi feeds su YouTube critica – da una prospettiva peraltro piuttosto conservatrice e di destra, nostalgica d’un ordine patriarcale – una serie di capisaldi del pensiero liberal. Peterson contesta, tra le altre cose, che il governo canadese sia giunto per legge a sanzionare come offensivo e discriminatorio l’uso d’un pronome personale che non corrisponda all’identità di genere (non quella biologica, assegnata alla nascita) in cui la persona si riconosce. Se qualcuno si rivolge a me utilizzando il pronome he anziché she o they – o viceversa – io ho il diritto di chiedere l’allontanamento dal lavoro di chi, attraverso il linguaggio, bistratta la mia identità di genere (la professione, evidentemente, è sempre il punto vivo che fa più male). Mentre masse di americani – cis o queer o trans non importa – si stanno proletarizzando, nei campus più evoluti i dibattiti s’infiammano su temi come questo, sino a togliere pubblicamente la parola a speaker non allineati, magari portatori di qualche dubbio o riflessione critica, senza che per tale motivo quegli speaker si riconoscano nel patriarcato nostalgico d’un Peterson o in posizioni politiche pericolosamente reazionarie.
L’accademia liberal, in altre parole, adotta l’intersectionality come metodo di ricerca ma pure come esempio di condotta civile, e in questo modo porta allo scoperto la sua anima profondamente identitaria (il che è un bel paradosso, se si pensa che anche il sovranismo è identitario). Ciascuna minoranza, in nome d’un ideale di giustizia sociale, ha il diritto – e questo di per sé è ovviamente sacrosanto – di far sentire la propria voce. La discriminazione, infatti, colpisce l’appartenenza di genere ma anche quella etnica, la disabilità ma anche l’identità religiosa, lo status socio-economico ma anche l’età anagrafica (soprattutto in un’epoca di pandemie globali, nella quale la vita degli anziani e dei malati sembra contare di meno). Il problema è che se si dogmatizza questa sorta di relativismo identitario della giustizia, e se il ‘frammentismo’ dell’intersezionalità diviene a sua volta un’astrazione della political correctness, chi o che cosa possono mettere concretamente in comunicazione tra loro le opposte e disaggregate minoranze di genere, le diverse e conflittuali comunità etniche, religiose, culturali e così via?
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Angelfood McSpade (lett. “Torte di Angelo-MacPicche”) è un personaggio femminile nero creato da Robert Crumb, il padre del fumetto alternativo nato dalla controcultura degli Anni 60, concentrando in lei tutti gli stereotipi maschilisti e razzisti. Rifiutando di vedere il secondo grado del personaggio, i/le sostenitori·trici dell’ “identitariamente corretto” l’hanno condannata a scomparire da qualsiasi mostra o pubblicazione, come la maggior parte dei personaggi di Crumb.