Il mostro giuridico che ricopre l’intero territorio italiano da ventidue anni fa parte di un sistema diffuso in tutta l’Unione Europea e produce tra i migranti rivolte, autolesionismo, suicidi e violenze di ogni genere
Foto di Giovanni Izzo
Fra i tanti difetti e mancanze, il deludente decreto-legge col quale il governo Conte-bis ha tardivamente modificato le due famigerate leggi di conio salviniano (la n.132 del 1 dicembre 2018, e la n.77 dell’8 agosto 2019), v’è il fatto che esso abbia conservato il mostro giuridico della detenzione amministrativa, sia pur riducendo la durata del «trattenimento» da centottanta a novanta giorni: prolungabili di un mese per chi provenga da Paesi che abbiano stipulato con l’Italia accordi di «riammissione».
Novanta giorni
Per rendersi conto di quanto limitata sia una tale «riforma», è sufficiente considerare che la pur famigerata legge detta Bossi-Fini (la n. 189 del 30 luglio 2002) prolungò l’arco di tempo della detenzione amministrativa da trenta a novanta giorni, per l’appunto. E non solo: il decreto «riformista» del governo Conte-bis prevede anche la possibilità alternativa di trattenere persone migranti irregolari, destinate all’espulsione, non già in un Cpr (Centro per il rimpatrio), bensì in una struttura di polizia, per condurle da lì direttamente in aeroporto. Non sono molti/e coloro che se ne sono pubblicamente scandalizzati/e. E non tutti/e hanno ricordato, in tale occasione, che la detenzione amministrativa, palesemente anticostituzionale, riservata alle persone immigrate irregolari, quindi destinate all’espulsione, fu istituita ufficialmente, per la prima volta nella storia repubblicana, da un governo di centro-sinistra, il Prodi-uno, con la pubblicazione del disegno di legge governativo sull’immigrazione (19 febbraio 1997), che poi sarebbe stato convertito nella legge del 6 marzo 1998, n. 40, detta Turco-Napolitano, seguita, il 25 luglio 1998, dal «Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero».
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Sin dalla loro istituzione fino a oggi, tali lager per migranti (denominati dapprima Cpta, poi Cie, infine Cpr) sono caratterizzati perlopiù da pessime o problematiche condizioni igieniche, strutturali, logistiche; dalla presenza occhiuta, talvolta aggressiva, delle forze dell’ordine; nonché dalla possibilità assai limitata (in taluni casi inesistente) di avere contatti con l’esterno. Chiusi, in non pochi casi, da mura o da più ordini di sbarre (si pensi a quello di Ponte Galeria, vicino Roma), rappresentano la perfetta materializzazione non solo dell’istituzione totale, ma anche di un sistema di controllo che arriva fino a privare gli individui della libertà personale non in ragione di un reato commesso, ma del loro semplice status. La loro natura spuria ed extra-legale, il loro carattere d’eccezione permanente sono illustrati dal costante ricorso – più che nelle carceri – alla pratica di somministrare agli internati, il più delle volte a loro insaputa, psicofarmaci e neurolettici. Spesso le condizioni di vita imposte agli «ospiti» dei Centri sono al limite dell’umanamente sopportabile e non manca la pratica delle violenze e dei pestaggi punitivi. Ma non si tratta di un’eccezione italiana: sanzionati dagli accordi di Schengen e di Dublino, i centri di detenzione sono divenuti un vero e proprio sistema, che ricopre l’intero territorio dell’Unione europea, un sistema che quotidianamente produce rivolte, atti di autolesionismo, suicidi e violenze di ogni genere.